Parla, ti ascolto.

Il linguaggio, la meravigliosa abilità cognitiva che consente di interagire tra individui, si sviluppa nei bambini a partire da una condizione a dir poco fondamentale: il contatto con i suoi simili.

Già nei primi due mesi di vita, il bambino riesce a produrre suoni ma solo dopo i sei mesi entra nella fase della così detta “lallazione”, con ripetizioni di coppie di suoni. Con il passare dei mesi, il bambino entra nella fase della “olofrase” (una parola utilizzata con un’intera fase) e successivamente arricchisce sempre più il proprio vocabolario, in relazione anche alla quantità di stimoli ambientali e relazionali che sperimenta.

Il linguaggio è fondamentale per comunicare con gli altri, ma è anche quella facoltà intellettuale che ci permette di formulare idee, pensieri, di provare sentimenti ed emozioni, attribuendo ad ognuno di essi un nome e la possibilità di condividerlo.

Prima che il bambino inizi a parlare in maniera comprensibile ed articolata, comunica i suoi bisogni alla mamma e al papà sostanzialmente con il pianto o con il riso, con l’uso del linguaggio non verbale. 
Accedere alla possibilità di utilizzare il linguaggio parlato, in seguito, permette al bambino di comunicare con tutte le persone che ha intorno (non solo con chi lo conosce da sempre), facilitando la relazione con gli altri ed arricchendo la sua conoscenza del mondo.

Ma quando ha imparato l’essere umano a comunicare ed usare il linguaggio dalla sua comparsa sulla Terra?

Sverker Johansson è un fisico delle particelle che, dopo il dottorato, si è convertito alla linguistica. Secondo il dottore, tutto ebbe inizio con uno stringente bisogno di cooperare: i nostri antenati si trovarono immersi in condizioni ambientali che imponevano loro di stabilire una forte fiducia reciproca, e per far questo dovettero imparare a parlarsi. Prima del linguaggio vero e proprio, la comunicazione tra ominidi era caratterizzata da espressioni pittoriche molto semplici e universali o da gesti inizialmente casuali e poi via via più significativi.

Secondo Johansson lo sviluppo del linguaggio avviene con la comparsa dell’Homo erectus, le cui modifiche morfologiche e fisiche richiesero la capacità di collaborare, ed il linguaggio divenne importante per la suddivisione del lavoro, difendersi dai pericoli e per la condivisione della conoscenza.

Non è dello stesso avviso Noam Chomsky secondo il quale il linguaggio non è uno strumento perfettamente adattato alla comunicazione: piuttosto si sarebbe sviluppato per consentire agli esseri umani di pensare, e solo in un secondo momento sarebbe stato riutilizzato per parlare con gli altri.

La comunicazione, dal latino communicare, significa “mettere in comune”, legando il termine cum che significa insieme e munis che significa dovere, incarico.

Trovo che l’aspetto davvero interessante della comunicazione sia il fatto che ogni comunicazione attivata, modifica chi la riceve, per un secondo o per tutta la vita.

Una parola detta in modo sbagliato, nel momento sbagliato attiva una serie di emozioni negative a cui possono seguire azioni altrettanto sgradevoli e, viceversa, la parola umana è un potentissimo strumento per recare sollievo e conforto, per dichiarare guerra, per spaventare, per guarire o per amare.

Il linguaggio più profondo ed intimo avviene prima di tutto nel nostro respiro, nella nostra mente, con la consapevolezza, con le parole o col silenzio, con le orecchie ma anche con gli occhi, con la mente ma anche con il cuore.

Mi domando però se nel nostro mondo moderno e frenetico di oggi ci sia davvero spazio per il silenzio, per l’ascolto consapevole.
Il linguaggio e la comunicazione sono enormemente cambiate negli ultimi decenni.

Manuel Castells Oliván, sociologo e politico spagnolo naturalizzato statunitense, ha detto:

«negli Stati Uniti la radio ha impiegato trent’anni per raggiungere sessanta milioni di persone, la televisione ha raggiunto questo livello di diffusione in quindici anni; internet lo ha fatto in soli tre anni dalla nascita del world wide web»

(Castells 1996; trad. it. p. 382).

Tutta la storia dei mezzi di comunicazione di massa può essere letta come una trasformazione dalla scarsità all’abbondanza.

Infatti, nei primi anni della comunicazione di massa, nella prima metà del Novecento, i mezzi e i messaggi in circolazione erano in numero ristretto, oggi il numero dei messaggi è aumentato in maniera portentosa tanto da essere in una situazione di sovrabbondanza.
Situazione che ha favorito la possibilità per chi intende creare confusione e paura, introdurre in maniera continua informazioni intese a portare la massa verso una determinata “consapevolezza” (spesso inconsapevole). A tal proposito, l’OMS ha recentemente utilizzato il termine “infodemia” ancora prima della “psicopandemia”.

Le conseguenze di questa evoluzione digitale e tecnologica sono state svariate: se da un lato le informazioni mondiali sono circolate in maniera più fluida e immediata, con maggiori difficoltà di censura e possibilità di conoscere in tempo reale situazioni di conflitti o calamità naturali, da un altro ha prodotto una ipertecnologizzazione della popolazione mondiale, in particolare dei paesi più sviluppati e di fasce di età più precoci.

Se vent’anni fa sarebbe stato impensabile consegnare ad un bambino di 9-10 anni un computer/tablet o un telefonino, oggi è diventata quasi una normalità.

Per gli adulti si tratta a volte di un agente esterno vicario dell’accudimento che offre uno spazio di sollievo dagli impegni genitoriali e per sé di un momento di disconnessione dal mondo esterno.

Per i giovani e i giovanissimi un tramite nella costruzione della propria identità, nell’esercitare un’influenza significativa sul gruppo dei pari e nel trarre dal successo che vi si ricava un ritorno di immagine e di sicurezza.

Questa transazione nasconde ovviamente svariate insidie, la prima fra tutte un’analfabetismo nella comunicazione (analfabetismo funzionale , ndr) e l’evidenza di una grande fragilità della propria personalità, arroccata su aspetti del tutto virtuali e come tali irreali.

Gli anni Ottanta sono stati gli anni del cosiddetto «diluvio commerciale», come lo ha definito uno dei principali studiosi della comunicazione di massa, Jay Blumler (1992).

Accanto allo sviluppo del sistema televisivo si sviluppa la grande distribuzione, che permette alla popolazione di poter accedere agli stessi prodotti ovunque si trovino.
Si sviluppa parallelamente il bisogno di creare pubblicità e con essa generare bisogni nella popolazione che è sempre più calamitata ed inebetita dai canali televisivi.

La digitalizzazione che si è sviluppata su ampie fasce di attività lavorative, con gli anni si è estesa ovunque in maniera universale e molto veloce. Questo fenomeno ha avuto un’enorme influenza su tutta la popolazione, su ogni livello: istituzionale, politico, commerciale e sanitario. Il modo di leggere, lavorare, curare e giocare è completamente cambiato: è veloce, visionario, con potenzialità pressoché illimitate e – per molti versi – disumane.

In tale ottica il famosissimo romanzo “1984” di George Orwell appare oggi più attuale che mai.

Sembra che l’autore, con le sue parole ci esorti oggi a dubitare del nostro stesso pensiero perché potrebbe essere condizionato dal linguaggio costruito apposta per incarcerare la nostra mente.

George Orwell ha voluto mandare un messaggio di ammonimento contro l’indifferenza che tollera forze che tendono ad annullare la libertà e la dignità individuale.

Se oggi non siamo attenti ai messaggi che gli organi di potere veicolano in nome di ipotetiche ideologie verremo sopraffatti e più che mai esposti all’incapacità di comunicare con quel linguaggio che tanto ci ha reso evoluti quanto fragili.

Dunque fermiamoci un momento a riflettere a chi sta vicino a noi diciamo semplicemente:

“parla, ti ascolto”.

Foto di copertina Andrew Martin da Pixabay

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